Comunicazioni | Posters | Torna al Convegno | Bibliografia
Definizione problematica
Tra le costanti della più recente riflessione teorica sugli aspetti performativi del rito spiccano soprattutto quelle connesse ai fattori cognitivi e percettivi degli “agenti”, da un lato, e degli “osservatori”, dall’altro. Entro questi termini la critica archeologica ha cominciato a muoversi a partire dagli anni ’80, grazie agli stimoli derivanti da un più serrato e dinamico confronto con il contemporaneo dibattito dell’antropologia sociale e culturale che consentivano, procedendo per approssimazione, di vagliare criticamente e, per così dire, “smontare” le principali categorie dell’intelletto “occidentale” (come quelle fondate, in particolare, sulle opposizioni oggetto/soggetto, cultura/natura, intelletto/materia ecc.), mostrandone la relatività in termini sia storici che contestuali, dal campo più vasto delle ideologie a quello più specifico del gender, dell’età sociale, dell’ethnicity ecc.
L’archeologia, negli ultimi anni, ha variamente tentato di mutuare dall’antropologia e dalla sociologia alcuni strumenti concettuali in grado di “indirizzare” analiticamente e costruttivamente la ricerca. Sul fronte processuale l’attenzione si è andata soffermando, prevalentemente, sulla ricostruzione degli aspetti cognitivi delle società del passato così come possono essere colti dai loro resti materiali (la cosiddetta «materiality») attraverso quello che C. Renfrew ha recentemente definito «material engagement approach» (Renfrew 2001, Id. 2004, Rethinking Materiality 2004, Renfrew 2005, Id. 2012).
Una analoga attenzione per gli aspetti cognitivi della realtà materiale e per il complesso tema del “rapporto/intreccio/dipendenza uomo-cosa” («human-thing entangled» o «Entanglement Theory») ricorre anche in ambito postprocessuale ma essa, piuttosto che privilegiare funzionalisticamente l’analisi e la ricostruzione della mentalità del passato, è riversata sia sull’“oggetto/soggetto osservato” che sull’“osservatore” e sulla loro reciproca “interazione”, sulla base di una riflessione più ampia sui meccanismi dell’intelletto che, tenendo conto delle più recenti acquisizioni della neuroscienza, ha evidenziato come i processi neuronali che sovrintendono alla percezione sono i medesimi che determinano la concettualizzazione di ciò che viene percepito. L’indagine si è quindi spostata dalla codifica storica e contestuale dei significati simbolici di gesti, oggetti o immagini, all’analisi delle dinamiche che presiedono alla loro formulazione e che sono fondate, in primo luogo, sulle modalità di interazione col reale (da ultimo Hodder 2011, Id. 2011a e Id. 2012).
La centralità del corpo in tale interazione costituisce una delle principali acquisizioni dell’archeologia postprocessuale nel corso degli anni ’90 (con ampie condivisioni anche sul fronte cognitivo-processuale), tale da dar luogo a uno specifico filone teorico denominato «Embodied archaeology» (Sweeney, Hodder 2002, Hamilakis, Pluciennik, Tarlow 2002, Meskell, Joyce 2003, Nilsson Stutz 2003, Gilchrist 2004, Fowler 2004, Joyce 2004, Sofaer 2006, Joyce 2008, Nilsson Stutz 2008, Fahlander, Oestigaard 2008, Rebay-Salisbury, Sørensen, Hughes 2010, Sørensen, Rebay-Salisbury 2012, Gowland, Thompson 2013). Le dinamiche attraverso le quali il nostro corpo interagisce con l’ambiente circostante determinano, inevitabilmente, il modo in cui quest’ultimo viene percepito e concettualizzato, con esiti che, naturalmente, possono variare a seconda di molteplici condizionamenti interni (psicologici, fisici, emozionali, neuronali ecc.) ed esterni (ambientali, ideologici, geografici, storici, culturali ecc.).
Ciò ha comportato negli ultimi tempi un generale ripensamento del concetto stesso di «materiality» e ha portato a focalizzare l’attenzione sulla trama di relazioni che esso presuppone, con specifico riguardo per la “corporalità” e per la sua inevitabile posizione “trasversale” tra la sfera funeraria e quella dei viventi (Fahlander, Oestigaard 2008a).
In virtù di tali assunti, dunque, anche il corpo, la nozione di “individualità” e quella conseguente di “persona” assumono dei contorni sempre più sfumati, al punto da rendere “equivoca” la percezione biologica della corporeità, relativizzandone “culturalmente e storicamente” l’apparente analiticità: «Different cultures and ages not only attribute personhood to different things (and not all biological humans are guaranteed personhood), but construct different criteria for where a person begins and where a person ends. In other words […] the boundary around the self is not isomorphic with the biological body, which is itself culturally and historically mutable.» (Hodder, Hutson 2003, p. 104).
Quest’ultima prospettiva teorica è stata ulteriormente sviluppata da J. Chapman (in particolare Chapman 2000, Chapman, Gaydarska 2007, Iid. 2010 e Iid. 2011) cui si deve l’introduzione nella nostra disciplina del concetto di «enchainment» («a chain of social relations achieved through exchange») e di quello ad esso strettamente correlato di «fragmentation» («to divide, for the purposes of distributing relations either through enchainment or accumulation») (Gamble 2007, p. 137). Tali teorizzazioni traggono spunto dalla discussione antropologica sul tema della «dividualità» («dividuality») e della «partibilità/parcellizzazione» («partibility») della persona, oggetto di specifica attenzione soprattutto grazie alle indagini di Marilyn Strathern nell’ambito di una riflessione più ampia sulle dinamiche del genere e del dono nelle comunità melanesiane, volta a relativizzarne l’essenza rispetto a quella solitamente divenuta paradigmatica nelle moderne culture occidentali (Strathern 1988; cfr. inoltre Ead. 1992, Ead. 1992a, Ead. 1999 ed Ead. 2004). Per la Strathern la personalità melanesiana sarebbe il risultato diretto di una “concatenazione” di relazioni sociali, la medesima che sovrintende ai meccanismi relazionali del “dono” sui quali è fondata la loro economia e che la Strathern ha definito «enchainment»; chiamando in causa i concetti di «objectification» e «personification» e il ruolo centrale detenuto in questo processo dal rapporto tra “oggetti” e “persone”, l’antropologa perveniva infatti a una analoga relativizzazione della nozione di “proprietà”, dimostrando la sua inadeguatezza a rappresentare un sistema avulso da quei meccanismi che nel mondo occidentale vengono convenzionalmente correlati all’“individualità”.
Per effetto di tale «partibilità» ciascuna persona poteva quindi essere considerata una entità divisibile e, al tempo stesso, costituire di per sé la sintesi dell’insieme più ampio di cui è parte (come, ad esempio, il clan); in questo modo essa inglobava simultaneamente tutte le concatenazioni relazionali che la contraddistinguevano nella dimensione “singolare” così come in quella “plurale” della sua essenza, facendo sì che una “parte” fosse sufficiente a rappresentare il “tutto”.
Ricerche successive hanno evidenziato come il concetto stratherniano di «partibilità» non potesse essere definito sulla base di un confronto comparativistico limitato alle sole culture occidentali, ma dovesse essere verificato in termini ancor più relativistici e storicamente contestualizzanti, come ha sintetizzato di recente C. Fowler richiamando le varie problematiche epistemologiche poste dalla questione e operando un interessante confronto tra le tesi di Strathern sul “sistema” melanesiano («Dividual and partible») e le indagini di C. Busby su quello dell’India meridionale («Dividual and permeable»): «Partibility operates through isolating and extracting parts of the person, and permeability circulates quantities of substance between discrete yet pervious people. Both exhibit features different from the indivisibility that characterizes the western individual.» (Fowler 2004, p. 32).
Nonostante le indubbie criticità correlate ad astrazioni di questo tipo, le intuizioni della Strathern si sono rivelate estremamente efficaci per l’approfondimento delle problematiche della «materialità» e, più in generale, per una rivalutazione dei possibili nessi tra cose e persone, come traspare con chiarezza dalle riflessioni dell’antropologa J. Hoskins sulla «biografia» degli oggetti e sulla loro centralità per la ricomposizione della vita e della “storia” degli uomini, laddove questi ultimi non siano in grado o non vogliano raccontarla, come ella ebbe modo di verificare nella sua esperienza di ricerca tra i Kodi indonesiani e come è consuetudine per gli archeologi (Hoskins 1998).
L’idea del «life cycle of things», chiamata in causa da J. Chapman e da B. Gaydarska nell’apertura del loro saggio del 2007 significativamente intitolato «Parts and Wholes» (Chapman, Gaydarska 2007), trae spunto direttamente dagli assunti teorici sopra citati, per integrare la concezione della «social life of things» (Appadurai 1986) con la nozione stratherniana di «enchainment» e calarne gli effetti nella prassi archeologica. Sul piano metodologico ciò era reso possibile dall’individuazione nella documentazione della preistoria recente dei Balcani di comportamenti connessi alla frammentazione intenzionale di specifiche “realtà materiali” (e, più o meno conseguentemente, anche al loro successivo “riutilizzo”), spesso dotate di una particolare rilevanza simbolica (come le statuette antropomorfe, la ceramica decorata, le cosiddette «pintaderas» o, anche, i resti scheletrici dei defunti) o correlate a determinati contesti dalle pregnanti valenze rituali (come le sepolture, i ripostigli o i luoghi di culto). La frammentazione rituale costituirebbe pertanto una metafora estrema della «partibilità» umana e del sistema di relazioni ad essa correlato, ottenuta scomponendo determinati oggetti in “parti” in grado da sole, così come per tramite del loro insieme, di rappresentare il “tutto”.
Gli esiti di tali ipotesi nella sfera della ritualità funeraria sono abbastanza evidenti e sono stati variamente sviluppati dallo stesso Chapman, soprattutto per quel che concerne i risvolti performativi della gestualità connessa alla frammentazione intenzionale, consentendo di trasporre direttamente nella pratica sul campo un nutrito corpo di speculazioni teoretiche attraverso le quali è divenuto possibile vagliare risposte alternative per gesti e comportamenti altrimenti privi di adeguate spiegazioni. Ciò si è verificato, ad esempio, in merito all’interpretazione di alcune peculiari forme di manipolazione dei resti scheletrici, sovente rapportate a disturbi incidentali o a pratiche devianti di tipo necrofobico, ma che a un esame più accurato sono risultate potenzialmente riconducibili a specifiche credenze rituali, come quelle correlate alle logiche dell’«Enchainment Theory», ossia della volontà di creare un nesso tangibile tra defunti e sopravvissuti per tramite della parcellizzazione del loro scheletro e/o di oggetti variamente legati alla loro sfera identitaria.
Veniva in tal modo innestata nelle logiche metaforiche dell’archeologia simbolica una nuova possibilità interpretativa, fondata su di una equazione concettuale tra i comportamenti correlati alla materialità corporea dei defunti e quelli caratterizzanti la loro cultura materiale, intendendo l’una come proiezione dell’altra e viceversa e includendo nel discorso quella rete di relazioni («enchainment») che potevano connotare “frattalmente” una determinata persona, il suo gruppo di appartenenza e le loro varie possibili manifestazioni culturali. L’analisi, pertanto, finiva quasi inevitabilmente per investire la più vasta discussione sul tema dell’individualità, nelle sue dinamiche antropologiche così come nei suoi riscontri materiali, almeno limitatamente al modo in cui essi tendono a stratificarsi e a essere colti nella loro dimensione/proiezione archeologica.
La principale sfida consisteva quindi nell’enucleazione di una metodologia condivisa per individuare i residui materiali di quella «dividualità» teorizzata dalla Strathern, presupponendo che anche nelle realtà archeologicamente osservate potessero sussistere quelle peculiari dinamiche identitarie e relazionali riscontrate etnograficamente in India o Melanesia, sia per quel che concerne la percezione dell’esistenza di un rapporto metaforico tra persone e oggetti che per quel che riguarda la concezione stessa della società nelle forme precedentemente enunciate della «fractality», «partibility» o «permeability», in alternativa alla canonica opposizione tra “individualità” e “collettività” cui la mentalità occidentale è tradizionalmente assuefatta.
Per Chapman tale fine poteva essere conseguito sviluppando delle modalità operative affidabili per la ricostruzione della «biography of things» attraverso la raccolta, la verifica e l’interpretazione dei casi di frammentazione volontaria e di utilizzo sistematico degli oggetti defunzionalizzati; un aspetto, quest’ultimo, sul quale, quasi inevitabilmente, i critici della «Fragmentation Theory» si sarebbero più accanitamente soffermati per evidenziare le difficoltà correlate al riconoscimento di una deliberata consapevolezza in atti che potevano essere tali anche in seguito a fattori casuali o legati a una semplice esigenza di reimpiego oppure essere la diretta conseguenza di meccanismi involontari connessi alle dinamiche postdeposizionali e/o alle modalità di formazione del giacimento e, non da ultimo, alle circostanze del rinvenimento e alle caratteristiche delle procedure e della documentazione di scavo, molto spesso tali da non consentire una estensiva e accurata indagine del complesso oggetto di studio né, tanto meno, una ricomposizione esaustiva del suo processo diagenetico.
La casistica raccolta da Chapman è piuttosto ampia ed esaustiva, seppure non sempre connotata da un rilievo statistico adeguato a renderla rappresentativa di un rituale codificato e condiviso collettivamente. Vi sono tuttavia situazioni nelle quali i comportamenti riscontrati sono innegabilmente riconducibili a una esplicita volontà simbolica, come si verifica in quei casi in cui parti del medesimo oggetto risultano collocate in sepolture distinte della stessa necropoli («inter-burial re-fits»), con un intervallo temporale tale da rendere presumibile una conservazione prolungata nel tempo del frammento rinvenuto nel contesto recenziore. Il proposito di istituire un “nesso materiale” tra i due o più individui contraddistinti da parti del medesimo oggetto (o, anche, da porzioni ossee del medesimo scheletro) lascia molto plausibilmente supporre che all’origine vi sia stato un gesto rituale intenzionale connesso alla sua frammentazione, conseguente spartizione e prolungata conservazione in vista della sua definitiva deposizione; un insieme di atti deliberati che si prestano dunque a essere interpretati presupponendo la volontà di creare una “concatenazione” profonda tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra discendenti e antenati, evocando, conseguentemente, legami di tipo parentale per tramite di “oggetti personificati” o, viceversa, di “persone oggettificate”.
Una «objectification» che poteva aver luogo anche per mezzo di metafore plastiche della corporeità umana, come le statuette antropomorfe in terracotta ampliamente diffuse nei Balcani, sulle quali Chapman si sofferma con particolare attenzione per verificare l’esistenza di parallelismi rituali tra il trattamento loro riservato e quello prestato alle spoglie umane. In caso di manipolazione, i resti scheletrici potevano infatti essere oggetto di distinte strategie comportamentali (non necessariamente alternative), tutte correlate alla loro “scomponibilità”, delle quali Chapman fornisce la seguente schematizzazione:
«fragmentation – the sub-division of the skeleton into different and major parts (e.g. the torso), some or many of which were never buried in the context of the “final” burial [...]
addition – the deliberate incorporation of human bones from another skeleton of the same age/biological sex identity into a burial of a more or less complete burial [...]
removal – the extraction from the grave of a largely complete skeleton of one human bone or a small number of human bones for removal to another context [...]
re-combination – the creation of a hybrid body by the placing of part of one human body in juxtaposition to that of part of the body of another human of different age/sex or another species [...]
substitution – the replacement of a human bone in an otherwise complete burial by the bone of another species or by a material object [...]
re-integration – the completion of a partial skeleton by placing the missing bone back in the anthropologically correct place but clearly without the previously destroyed articulation [...].» (Chapman 2010, p. 33).
Naturalmente, perché i contesti contraddistinti da tali “comportamenti” possano avere una qualche rilevanza “rituale” è necessario che sussistano indizi sufficientemente perspicui per ricollegarne la formazione a una effettiva consapevolezza culturale, cosa difficile da riconoscere non solo in presenza di eventuali “disturbi” postdeposizionali privi di velleità rituali ma, specialmente, in tutti quei casi in cui tali sepolture hanno carattere secondario, con conseguenti possibili “frammentazioni”, “selezioni”, “asportazioni” o “contaminazioni” dei resti scheletrici tutt’altro che intenzionali, come l’antropologia fisica e, da ultimo, l’archeotanatologia hanno dimostrato, anche col supporto di un’ampia documentazione etnografica.
Nonostante tali teorizzazioni – accanto a adesioni più o meno entusiastiche – abbiano destato critiche, almeno in parte, condivisibili (cfr. al riguardo Fowler 2004, pp. 66-71, 114, Sofaer 2006, pp. 12 ss., Rebay-Salisbury, Sørensen, Hughes 2010, Knappett 2012, pp. 199 s. e Brittain, Harris 2010), esse sollevano comunque una serie di questioni che, a nostro avviso, non possono essere trascurate nell’ambito di una riflessione matura sulle problematiche della ritualità e dell’ideologia funeraria; esse, infatti, non si limitano a introdurre nell’ambito archeologico alcuni dei risultati conseguiti dalla critica antropologica in merito alle nozioni di «personhood» e «(in)dividuality», ma sviluppano di pari passo una serie di strumenti metodologici ed euristici indispensabili per una più attenta e puntuale percezione delle varie dinamiche connesse a gesti rituali come quelli legati alla frammentazione, istituendo importanti parallelismi cognitivi e simbolici tra “corpi” e “oggetti” e, soprattutto, tra gli esiti materiali degli atteggiamenti correlati ai concetti di “personificazione” e “oggettificazione” e alla loro dialettica.
L’aspetto che, tuttavia, sembra suscettibile di maggiori sviluppi è quello legato alla nozione di «concatenamento», nei suoi presupposti così come nei suoi risultati; una questione che, in modo indipendente, veniva parallelamente approfondita dall’archeologia funeraria ispirata al filone filosofico-antropologico dell’«Actor-network-theory», sostituendo al concetto di «enchainment» quello affine di «network».
La destabilizzazione e la relativizzazione del concetto di “individuo/persona” aveva comportato, sin dai primi anni ’80, un progressivo e quasi inevitabile declino delle conseguenti teorizzazioni incentrate sulla nozione di “social persona”, essenziali per l’interpretazione processuale della dimensione sociale delle pratiche funerarie. In questa progressiva opera di decostruzione delle categorie del pensiero occidentale l’unico concetto che continuava a preservare una qualche “validità” era quello correlato alla più volte richiamata “interazione”, su cui la critica filosofica e antropologica aveva da tempo cominciato a soffermare la sua attenzione, dalle prime teorizzazioni sull’«agency» e sulla «social life of things» fino ai più recenti sviluppi della cosiddetta «actor-network-theory» («ANT»).
Il nodo essenziale di quest’ultima tesi verte sull’idea che la realtà sia scandita da un complesso sistema di interazioni nelle quali risultano coinvolti non solo gli uomini (individualmente e/o in gruppi), ma anche i loro prodotti culturali (oggetti, immagini, concetti, parole ecc.) così come l’ambiente naturale e/o artificiale che li circonda.
Nata da una riflessione poststrutturalista di tipo storico ed etnografico sull’evoluzione del metodo scientifico e sul rapporto intercorrente tra scienza e cultura e tra gli scienziati e i fenomeni da questi scoperti e osservati, l’ANT, nei suoi sviluppi successivi ad opera dei suoi principali teorici (in particolare M. Callon, J. Law e B. Latour), si è progressivamente allargata fino a estendersi all’intera trama di relazioni possibili tra gli uomini e l’universo circostante (cfr., in particolare, Latour 2005 e, per una prospettiva critica, Saldanha 2003). L’«agency» di cui tutti gli oggetti sono dotati fa sì che essi possano interagire col reale contribuendo ad alterarlo e/o modificarlo, ma tale interazione non esiste di per sé (in senso astratto o assoluto, come si è soliti sottintendere in ambito struttural-funzionalista o processuale), ma solo per effetto del loro contatto con una controparte umana; l’«agency», inoltre, non è immutabile nel tempo ma può variare a seconda del contesto storico, della prospettiva della controparte o dell’osservatore e/o, in quest’ultimo caso, degli strumenti che vengono utilizzati per esaminarla.
Per i teorici dell’ANT, quindi, è tale «network» che determina la nozione di “società” ed è su di esso che deve soffermarsi la ricerca “sociologica”, a partire da un ripensamento complessivo della natura e dell’essenza delle categorie che si è soliti supporre compongano il “sociale”.
Si tratta, naturalmente, di una riflessione per molti versi paradossale e destabilizzante che ha indotto i suoi stessi teorici negli anni a riprendere e a precisare le loro prime formulazioni, in modo tale da attenuare l’eccessivo relativismo, la “fluidità” o l’assenza di ortodossia da molti imputati alle loro tesi. Ciò, tuttavia, non ne ha sminuito la fortuna, come rivela l’applicazione dei principi dell’ANT alle discipline più disparate, dalla geografia alla medicina all’economia all’antropologia all’informatica e all’archeologia, con risvolti non sempre fedeli agli intenti originari ma, potenzialmente, altrettanto produttivi in un’epoca in cui il concetto di “network” si è andato proteicamente implementando grazie al successo universale di strumenti fondati sull’“incremento” e lo “sfruttamento” delle “relazioni”, come “internet” e i “social networks”. L’apertura di nuove prospettive euristiche, quindi, pur non essendo sorretta da una specifica “metodologia”, ha il grande merito di aver consentito il superamento di insidiosi preconcetti, indirizzando la ricerca verso nuovi obiettivi cognitivi le cui potenzialità attendono ancora di essere compiutamente esplorate. D’altronde, come precisa lo stesso Latour, «ANT is first of all a negative argument. It does not say anything positive on any state of affairs» (Latour 2005, p. 141); ma è proprio l’assenza di una argomentazione costruita come sommatoria di osservazioni “positive” che, per i teorici dell’ANT, rende possibile il superamento di quei caratteristici preconcetti antropocentrici sui quali si è soliti fondare la percezione del sociale, per consentire quindi di calarla in una prospettiva effettivamente “oggettiva” anche se, come egli aveva in un primo tempo ipotizzato, non più letteralmente “simmetrica” (Latour 2005, p. 76; per la prospettiva “archeologica” sul tema cfr. Preucel 2006, p. 151, Olsen 2007, Shanks 2007, Olsen 2010, Olsen et Alii 2012, Hodder 2012, p. 94). In tal senso, dunque, si può condividere quanto Latour afferma in merito al fatto che nessuna “interazione” può legittimamente essere considerata «isotopica», «sincronica», «sinoptica», «omogenea» e «isobarica».
Attraverso la decostruzione del sociale, così come viene comunemente inteso, Latour perviene a una sua ricomposizione entro una nuova ottica, nella quale assume importanza non l’idea astratta del sociale in sé ma ciò che le relazioni/associazioni che esso presuppone producono come effetto, contribuendo a trasformare attivamente la realtà o – per utilizzare il termine adottato da Callon mutuandolo intenzionalmente dalla linguistica e ripreso poi da Latour – a «tradurla», dando luogo a quella «sociology of translation» (dove il termine «translation» va inteso come «a relation that does not transport causality but induces two mediators into coexisting») che, per il suo teorizzatore, costituisce la definizione più adatta dell’«actor-network-theory»: «I can now state the aim of this sociology of associations more precisely: there is no society, no social realm, and no social ties, but there exist translations between mediators that may generate traceable associations» (Latour 2005, p. 108).
Ed è proprio nella tracciabilità di tali associazioni/traslazioni e nella comprensione del loro significato e dei loro effetti che, sulla scia dell’ANT, ha cominciato a cimentarsi l’indagine archeologica sia nell’ambito dell’approccio «cognitive-processual» che di quello postprocessuale, stimolando un generalizzato ricongiungimento delle prospettive teoriche.
I risvolti di questa quasi inaspettata convergenza, tuttavia, devono ancora produrre dei risultati apprezzabili ma le loro potenzialità, almeno per quel che concerne il ripensamento delle categorie del sociale e dell’interpretazione del rapporto «human-things», sono senza dubbio meritevoli di attenzione, come ha evidenziato di recente C. Knappett propugnando una integrazione tra gli strumenti metodologici della «Social Network Analysis» («SNA») e quelli teorici dell’ANT: «By combining SNA with ANT we can bring together people and things both methodologically and theoretically» (Knappett 2011, p. 8).
È facile immaginare come uno dei campi nei quali tale approccio potrà conseguire i frutti più interessanti sarà plausibilmente quello della “sociologia funeraria”, nel quale l’“interazione” (intesa anche in senso “performativo”) tra il defunto, coloro che partecipano alla cerimonia funebre, il contesto in cui le sue varie parti si svolgono (abitato, tomba, necropoli, paesaggio ecc.) e gli oggetti che materialmente la compongono costituiscono un insieme di associazioni dalle forti connotazioni simboliche che, oltretutto, si potenziano proprio in virtù della loro reciprocità.
La principale novità dell’approccio sopra rapidamente descritto può quindi consistere nell’acquisizione della consapevolezza del ruolo del morto come «network», veicolo comunicativo delle relazioni del gruppo di appartenenza e “attore non-umano” di tali relazioni; una sorta di processo di “materializzazione” del defunto come antenato che, anche attraverso la sua nuova condizione, continua a esprimere la sua «agency» e a farsi così interprete e attore delle relazioni del suo «network». Lo sforzo degli interpreti consiste, quindi, in una codifica di tali “trasformazioni” nel senso di quella «sociology of translation» teorizzata da Callon che fa sì che le categorie tradizionalmente statiche del sociale siano riassemblate in un’ottica in cui prevalgono il dinamismo e la fluidità tipici delle relazioni «human-thing».