LA MORTE COME TECNICA – IL PROCESSO DELL’ESTINZIONE NEL VAJRAYANA INDO-TIBETANO

Massimiliano A. Polichetti, Museo Nazionale d’arte Orientale ‘Giuseppe Tucci’

Abstract

I fenomeni appartenenti a categorie particolarmente sottili di consapevolezza vengono interpretati dai sentieri sapienziali indiani come indipendenti dalla struttura neuro-cerebrale. Dicendo questo non si vuole però, soprattutto nel “Buddhismo” (rectius buddhadharma, la ‘dottrina del risveglio’), affermare che si possa indicare un fenomeno definendolo come un’anima immutabile, indipendente da cause, parti e condizioni. L’atto noetico è concepito come una sfaccettata matrice di eventi tra loro in articolata relazione di funzione e di significato. Alcuni eventi interiori all’uomo si rivelano in effetti essere prodotti dalla materia, cioè dal cervello, ma all’estremo opposto di questo variegato spettro altri fenomeni vengono al contrario dimostrati essere in possesso di caratteristiche non direttamente riconducibili al corpo in termini di relazione causale.

Nel linguaggio che si sta formando all’interno del Buddhadharma nella sua diffusione oramai globale, vengono distinti il concetto di ‘rinascita’ da quello di ‘reincarnazione’. Per rinascita si dovrebbe pertanto intendere il divenire inconsapevole (in sanscrito bhavati), mosso coattivamente dal karma, ovvero dalle azioni compiute, vita dopo vita, dal corpo, dalla parola e dalla mente. La rinascita è, secondo il Buddhadharma, il fenomeno che riguarda la maggioranza degli esseri che sperimentano il samsara, il ciclo delle rinascite contaminate dalla sofferenza; la reincarnazione riguarderebbe invece quei pochissimi che avendo stabilito un controllo eccezionale sul proprio continuum mentale riescono a veicolare consapevolmente questo flusso di coscienza in continua modificazione. Solitamente si tratta di ‘maestri’ (guru, tibetano tönpa o lama) e ciò implica che intorno a essi vi siano dei discepoli. Sentendo approssimarsi la fine del corpo fisico, il guru – mosso da compassione verso gli allievi che ancora necessitano di guida spirituale – può allora scegliere di chiamare intorno a sé la cerchia dei propri intimi per dare loro indicazioni più o meno precise in merito al luogo e al tempo della successiva reincarnazione per farsi rintracciare nel nuovo corpo. Solo in questi limitatissimi casi è perciò lecito parlare di reincarnazione.

La morte non viene dal Buddhadharma concepita come una cesura netta delle funzioni fisiche e mentali, ma piuttosto come un processo di estinzione dal corpo del principio cosciente in preparazione della rinascita successiva. Secondo alcune scuole del Buddhadharma tutti gli esseri nascono con ventisei componenti che al momento della morte si dissolverebbero gradualmente. L’importanza attribuita al riconoscimento dei rapporti tra i primi cinque fattori, o componenti, ovvero gli aggregati (skanda), e le cinque saggezze (jñana), che costituiscono l’ultimo gruppo nell’elencazione dei ventisei fattori, si giustifica nel collocarsi questa teoria all’interno di un sistema di riferimento più generale che interpreta il processo di divinizzazione dell’adepto in definitiva come la trasformazione dei cinque aggregati impuri nella natura purissima dei cinque buddha di un mandala. Tali buddha sono appunto preposti alla trasformazione di ognuna delle componenti, tanto grossolane che sottili, del composto corpo-mente dell’essere ordinario che affronta il processo che lo porterà al risveglio (bodhi).

Meriteranno inoltre attenzione le procedure funerarie che anche in contesto tibetano comportano lo smaltimento del corpo del deceduto (ovvero la sua completa smaterializzazione, il c.d. “funerale celeste”), così come l’impiego di parti relitte del corpo umano – massimamente le ossa – nella ritualistica tantrica, nonché il culto delle reliquie.           

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giulia osti4.6