“DU BERCEAU A LA TOMBE”. TRA RITI DEI VIVI E RITI DEI MORTI: I CONTRIBUTI DI VAN GENNEP E CRAVEL SUL CURIOSO CASO DEL “LIBERA ME” NELLA MESSA DI MATRIMONIO VALDOSTANA

 Elisabetta Dall’Ò, Università degli Studi di Milano - Bicocca

Abstract

Nel corso di una mia recente ricerca tesa a ricostruire il “senso della morte in Valle d’Aosta tra santi e riti funebri” in età moderna, tema che costituisce un vero e proprio “terreno di confine” – ma anche di dialogo – tra due discipline, storia e antropologia, mi sono imbattuta in alcune pratiche rituali che potremmo definire “altre”, attestate in area francoprovenzale fino almeno alla fine del XIX secolo. Seguendo il filo di tutta una documentazione d’archivio, che mi attendevo “ufficiale” e in cui pensavo di trovare “disposizioni rigide” legate alle prassi della chiesa in materia di rituali, celebrazioni, e prescrizioni, mi sono ritrovata invece ad avere a che fare con una serie di “usi e costumi altri”, come nel caso degli Usages del canonico Pierre Cravel, spesso dissonanti e in aperta opposizione ai rituali e alle pratiche ufficiali. Sono riaffiorate usanze tradizionali – talvolta del tutto inedite – legate alla vita, alla memoria, e alla morte. Vorrei presentare qui il caso della recitazione della preghiera per i defunti “Libera me” al termine della celebrazione della messa nuziale. Una breve premessa mi pare necessaria: la diocesi di Aosta aveva acquisito gran parte della sua liturgia da Svizzera e Germania grazie alla circolazione di volumi, pratiche, e informazioni che da sempre il colle del Gran San Bernardo permetteva di veicolare da una parte all’altra delle Alpi. Nel XI e XII secolo il formulario valdostano riproduceva integralmente la messa germanica, per poi mutare nei secoli, fino a giungere a una forma più “stabile” nel 1733. Secondo quanto prescriveva il rito matrimoniale, alla fine della messa si svolgeva una cerimonia di benedizione post missam del pane e del vino che gli sposi dovevano poi condividere in segno di comunione. Terminata la celebrazione, baciato l’altare, e fatta un’offerta al celebrante, i novelli sposi valdostani erano pronti a uscire dalla chiesa per fare il loro ingresso insieme nella comunità. Ed è a questo punto, proprio laddove i riti liturgici si fermavano, che talvolta si inseriva un ulteriore passaggio, necessario per consacrare e legittimare l’avvenuta unione della coppia: si trattava di una cerimonia, del tutto originale, che vedeva recarsi sulle proprie tombe di famiglia gli sposi, accompagnati dai parenti e dal prete che lì vi recitava il Libera. Con questo gesto gli sposi, prima di poter essere legittimati, riconosciuti, accettati, e di fare il loro ingresso nella comunità dei viventi come “coppia” – e, oserei direi, prima di fare il loro ingresso nelle rispettive genealogie come futuri antenati-dovevano ottenere il consenso dei morti. «Il semble donc que le bon usage des morts (et par conséquent une motivation essentielle de la croyance en leur survie) soit de leur faire créer des liens entre les vivants. […] Tout se passe, d’une certaine manière, comme si les rites donnaient aux morts leur véritable existence, c’est-à-dire leur efficience d'acteurs sociaux. L'importance du souci des morts dans les sociétés traditionnelles d'Europe ou d’ailleurs s’explique sans doute avant tout par l’0aptitude de leur évocation à créer des liens sociaux, en particulier dans des contextes où la parenté joue un rôle central dans la structuration de la vie sociale»[1].

 

[1] J.P. Albert, Les rites funéraires. Approches anthropologiques. Les cahiers de la faculté de théologie, 1999, pp.141-152. <halshs-00371703>

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