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Definizione problematica

«The qualities of performance can be analyzed in terms of several overlapping features. First of all, performances communicate on multiple sensory levels, usually involving highly visual imagery, dramatic sounds, and sometimes even tactile, olfactory, and gustatory stimulation. By marching with a crowd, crying over a tragic drama, or applauding an unconvincing politician, even the less enthusiastic participants of the audience are cognitively and emotionally pulled into a complex sensory experience that can also communicate a variety of messages. Hence, the power of performance lies in great part in the effect of the heightened multisensory experience it affords: one is not being told or shown something so much as one is led to experience something. And according to the anthropologist Barbara Myerhoff, in ritual-like behavior “not only is seeing believing, doing is believing.”» (Bell 2009, p. 160).

In ambito archeologico la totalità o quasi delle percezioni emozionali e multisensoriali chiamate in causa dalla Bell è destinata in modo irrimediabile a svanire senza lasciare tracce che possano avere una qualche rilevanza materiale. La componente performativa del rituale funerario delle civiltà del passato, pertanto, nonostante la sua rilevanza concettuale e simbolica, è quella più sfuggente, ricostruibile solo sulla base dei pochi e, spesso, modesti indizi che essa lascia sul terreno in quei casi in cui il luogo della deposizione coincide con quello del rituale e/o sia possibile avere una qualche cognizione dell’intera “topografia del rito”.

Tale contingenza si scontra, quindi, con la sempre più diffusa consapevolezza che per una corretta comprensione del “rito” sia necessario conoscerne, al tempo stesso, il “contesto e l’atto”, come ha ben evidenziato di recente l’archeologo T. Insoll: «Yet to recognise the subtleties and complexities of ritual will require definition on a case-by-case basis: ritual can be both odd and routine, it can be undertaken within the prism of the “focusing lens” or elsewhere; it is both the context and the act which are crucial in understanding ritual.» (Insoll 2004, p. 12).

Nell’archeologia ciò si traduce o, almeno, dovrebbe tradursi, in una maggiore attenzione per quegli atteggiamenti rituali che sottintendono altrettante azioni intenzionali e che contribuiscono ad articolare oltre la semplice apparenza il contesto simbolico della sepoltura. La ricostruzione di tali aspetti, oltre a offrire un utile supporto critico per l’interpretazione e la lettura delle altre fonti superstiti, consente di penetrare le logiche di quei comportamenti che, spesso, la regolamentazione rituale della cerimonia funebre tende ad appiattire, smussando le differenze e/o mascherando quanto di superstizioso, blasfemo, antinomico o oppositivo non veniva ritenuto adeguato a rappresentare la percezione comune o, piuttosto, quella “dominante” del rito.

Perché il quadro ricostruttivo delle pratiche funerarie attraverso il filtro del loro riflesso archeologico possa giungere a una migliore approssimazione è necessario, tuttavia, che l’attenzione degli archeologi si allarghi oltre l’obiettivo primario del loro interesse, rappresentato, ovviamente, dallo spazio tombale e dai suoi elementi accessori prossimali, come tumuli e segnacoli.

Ciò non significa soltanto sottoporre ad analisi lo schema planimetrico delle sepolture ai fini della codifica delle eventuali logiche che potevano presiedere alla “costruzione” (sociale e/o ideologica; interna ed esterna) dello spazio funerario e alla sua dialettica più ampia col territorio circostante che, parafrasando il concetto di «constructing death» dell’antropologo C. Seale (Seale 1998), potremmo definire «constructing deathscape». Perché sia possibile cogliere, almeno in parte, l’essenza del “funerale oltre la tomba” (che, spesso, costituisce unicamente la dimensione spaziale finale di un processo rituale ben più complesso), è necessario estendere l’esplorazione stratigrafica all’intero paesaggio del rito, includendo nell’analisi tutte quelle tracce di attività che potevano caratterizzarlo, così come avviene nella prassi di scavo dei contesti abitativi ma con la (quasi) ovvia consapevolezza di trovarsi di fronte a una realtà profondamente pervasa dalla ritualità, almeno limitatamente a quei casi in cui gli spazi a destinazione funeraria risultano concettualmente e operazionalmente separati da quelli riservati alla quotidianità residenziale e/o produttiva.

Lo stesso problema, naturalmente, si pone anche nel campo della ricerca antropologica, laddove il paesaggio funerario o, in senso più lato, quello rituale, per le sue logiche e dinamiche intrinseche, difficilmente può rientrare nella quotidianità dell’osservazione etnografica, per ragioni che possono anche non essere semplicemente o logisticamente legate al tempo disponibile ma all’accessibilità stessa e/o alla compiuta fruibilità di azioni rituali che, con variazioni significative da cultura a cultura, spesso sono pervase da filtri e/o interdizioni difficili da penetrare emicamente.

Sul piano pratico ciò presuppone un dispendio di mezzi e di tempi spesso poco consueti per una indagine etnografica e/o per lo scavo di una necropoli. In campo archeologico, il più delle volte, tale approccio è invece condizionato da circostanze di natura essenzialmente epistemologica, correlate a una visione della disciplina volta a privilegiare le parvenze materiali e/o esteriori delle evidenze funebri, tralasciando il quadro di insieme a favore di una visione limitata agli aspetti contenutisticamente, storicamente o artisticamente più perspicui.

Su di un piano specificamente metodologico è ormai sufficientemente chiaro come, spesso, la ricostruzione del paesaggio rituale sia essenziale per una corretta interpretazione degli aspetti rituali, simbolici e, anche, costitutivi delle sepolture, integrandone la lettura sia sul piano sociologico che su quello ideologico, come l’indagine etnografica ha da tempo evidenziato. Quest’ultima, infatti, ha in più occasioni posto in luce la complessa dialettica semiotica che può celarsi dietro ogni singolo atto cerimoniale, prima, durante e dopo il seppellimento dei resti del defunto, soprattutto nel caso di pratiche articolate come quelle incineratorie, il cui svolgimento può presupporre, molto spesso, localizzazioni distinte e una separazione concettuale più o meno marcata tra le sue varie fasi, con tutte le difficoltà che ciò può comportare dal punto di vista della perspicuità dei loro “residui” archeologici.

Si tratta, più in generale, di elementi fondamentali per una corretta comprensione di «quella sorta di dialogo che poteva istituirsi tra vivi e morti» (Ortalli 2008, p. 140), fatto di gesti più o meno estemporanei o di pratiche rituali regolarmente ripetute, come, ad esempio, la prassi libatoria e/o la “distruzione/uccisione” (con conseguente frammentazione e dispersione) intenzionale degli oggetti nel corso della cerimonia funebre di cui esistono ampi riscontri sia a livello etnografico che archeologico.

Sulla base di tali premesse, nella presente sessione si cercherà di affrontare problematicamente la definizione concettuale degli aspetti emozionali e spaziali del rito, con particolare riguardo per quanto concerne l’approccio antropologico e/o archeologico alle questioni legate alla ricostruzione/interpretazione della performance e del paesaggio rituale e delle loro reciproche relazioni e interferenze.

 

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