Il patrimonio invisibile dei musei. Indagine sulla gestione dei depositi museali archeologici in Italia
Brunella Muttillo
Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Studi Umanistici
La permanenza del patrimonio museale (termine non a caso richiamato nella definizione legislativa nazionale ed internazionale) giustifica la resilienza dell’istituzione museo e la sua stessa esistenza.
Non vi è dubbio che la collezione museale, l’insieme dei beni in dotazione di un museo, costituisca la condizione necessaria – anche se non sufficiente – per l’esistenza stessa del museo.
Ricerca, conservazione, comunicazione, educazione sono ambiti indissolubilmente connessi da un legame di mutua e reciproca interdipendenza che vedono nella collezione il comune denominatore.
La persistenza di questo patrimonio, e dunque la garanzia delle migliori condizioni possibili di conoscenza, tutela e conservazione, è un dovere imprescindibile dell’istituzione museale, che costituisce congiuntamente la base ineludibile per la comunicazione e valorizzazione del patrimonio.
Pur nell’attenzione sempre crescente riservata ai musei, in questi ultimi anni il dibattito sembra essersi incentrato più sull’ambito comunicativo (sociale, partecipativo) ed espositivo – su ciò che è visibile – che sul patrimonio invisibile dei musei, l’insieme dei beni custoditi nei depositi, che non è oggetto di esposizione.
Quali sono i problemi reali, concreti con i quali i depositi museali (e le professionalità che in essi lavorano, invisibili anche queste) devono fare i conti, al di là delle sempre più frequenti réclame dei mass media che riducono la problematica al mero – presunto – tesoro nascosto in cantina, interdetto alla pubblica fruizione a danno della collettività?
L’«accusa» mossa alle collezioni museali sarebbe quella di non essere «interamente visibili» (Marini Clarelli 2005, p. 13). È tuttavia intuitivo comprendere che non si può e non si deve esporre tutto. E ciò è ancor più vero per i depositi archeologici, archivi di tutto ciò che viene rinvenuto nel territorio.
Proprio la specificità dei depositi di materiale archeologico, i quali soffrono di un continuo ed esponenziale incremento, alimentato dall’assenza di criteri selettivi nella raccolta e dalla condizione di emergenza in cui normalmente si opera (tra gli altri, Marini Calvani 2004; Papadopoulos 2015; Shepherd and Benes 2007), impone una riflessione e un’analisi differenziata rispetto alle altre tipologie di beni culturali.
Si intendono pertanto in questa sede presentare alcune riflessioni alla luce dei risultati di una recente indagine statistica sulla gestione dei depositi archeologici museali in Italia, condotta nell’ambito del Dottorato in Scienze e Tecnologie per l’Archeologia e i Beni Culturali dell’Università degli Studi di Ferrara, in convenzione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT) e con l’Associazione Nazionale Musei Locali e Istituzionali (ANMLI).
Nel biennio 2014-2015 sono stati oggetto di indagine, tramite un questionario disegnato ad hoc (Muttillo et al. 2014; Muttillo 2015), i musei e istituti similari a carattere museale, statali e non statali, che acquisiscono, conservano, ordinano ed espongono al pubblico beni e/o collezioni di natura archeologica L’indagine ha permesso di delineare un quadro significativo e aggiornato del patrimonio archeologico museale non esposto, in riferimento a: registrazione e documentazione dei beni; conservazione dei beni; figure professionali addette allo studio, cura e gestione delle collezioni; struttura ed organizzazione dei depositi; sicurezza e controllo dei parametri di rischio; valorizzazione dei depositi in termini di accessibilità, visibilità e fruizione.
Pur considerando l’estrema eterogeneità della realtà museale italiana, i risultati dell’indagine, fondati sull’analisi di un campione statistico significativo (tasso di risposta del 54% per i musei archeologici statali e del 29,4% per i musei archeologici non statali), costituiscono un importante punto di partenza per l’analisi, la discussione e la pianificazione di interventi specifici e mirati in funzione della criticità rilevate.
L’incremento continuo delle collezioni, fenomeno riportato dal 70% dei musei statali e dal 50% dei musei non statali rispondenti, acuisce – inevitabilmente – le criticità rilevate, soprattutto in relazione all’inventariazione e catalogazione dei beni (per una sintesi esaustiva sullo stato dell’inventariazione dei beni archeologici vedasi Shepherd 2015, Tosti 2015).
È sicuramente auspicabile una maggiore attenzione alla pianificazione delle operazioni pre e post-scavo, ovvero una attenta valutazione della destinazione dei reperti rivenuti e dei requisiti necessari alla loro sistemazione, conservazione, studio ed eventuale esposizione sia precedentemente alle attività di scavo che successivamente, subordinando all’adempimento di requisiti minimi l’autorizzazione delle concessioni di scavo. Inoltre una maggiore collaborazione tra archeologi e addetti alla cura e gestione delle collezioni museali sarebbe funzionale al miglioramento della pianificazione degli aspetti legati alla gestione ed organizzazione dei depositi.
Contestualmente è necessaria una maggiore sensibilizzazione al problema dei depositi museali non solo nei confronti degli addetti ai lavori ma anche nei confronti del grande pubblico, promuovendone il significato e l’importanza in quanto risorsa fondamentale per il futuro del Paese.
La visione integrata di spazio espositivo e deposito è ancora lungi dall’essere raggiunta, così come la garanzia di una piena accessibilità fisica ed intellettuale.
Nonostante l’organizzazione di visite guidate in deposito, che costituiscono la modalità di valorizzazione dei depositi più comune tra i musei rispondenti – e solo in minor misura i prestiti e l’organizzazione di esposizioni con i reperti in deposito – il numero di accessi ai depositi su base annuale è estremamente basso, sia per i musei statali che per quelli non statali.
I depositi dei musei archeologici rispondenti non sono ancora predisposti in modo da favorire l’accesso del personale non direttamente addetto: almeno un istituto su due – statale e non statale – non dispone di spazi destinati allo studio/consultazione dei beni, né di strutture e attrezzature per favorire l’accesso dei diversamente abili.
Va inoltre considerato che non tutte le collezioni del deposito possono essere visionate da esterni, principalmente per motivi di conservazione (stato di particolare fragilità o deperibilità dei beni) e sicurezza (problemi di custodia e di vigilanza), ma anche per motivi scientifici (possibilità di visionare solo materiale inventariato, studiato ed edito).
Le nuove tecnologie offrono innumerevoli possibilità per garantire l’accessibilità e la fruizione del patrimonio non esposto (banca dati online, beni digitalizzati online, ricostruzioni 3D, etc.) tuttavia, al momento della rilevazione, nessuno dei musei rispondenti offriva la possibilità di consultare la banca dati del deposito online, per fini divulgativi e/o scientifici.
La carenza di personale qualificato è particolarmente rilevante per i musei non statali che non di rado ricorrono a volontari e/o a persone non stabilmente assegnate al museo/istituto, mentre presso i musei statali è maggiormente attestato il ricorso alla condivisione di figure professionali tra vari istituti. La partecipazione a corsi di formazione/aggiornamento da parte del personale addetto alla ricerca, cura e gestione delle collezioni è generalmente modesta, soprattutto per i musei non statali.
In conclusione la problematica dei depositi è estremamente complessa e, come tale, i tentativi volti al suo contenimento richiedono un approccio sistemico, che non può essere demandato all’iniziativa dei singoli e ridursi alle pur encomiabili esperienze di successo rilevabili a livello nazionale, ma che deve essere intrapreso dal MiBACT, di concerto con ICCD, MEF, Regioni, province autonome, comuni e con tutti gli enti non statali coinvolti.
Certo è che non esiste nessuna soluzione che non debba essere adottata a livello politico e istituzionale. È un problema politico e sociale, che esula dall’ambito dei soli addetti ai lavori e riguarda l’intera collettività, seppure non siano immediatamente percepibili le conseguenze sul lungo periodo; va ad inficiare tutta la carica documentaria e il potenziale informativo sul nostro passato e svilisce la missione stessa del museo. Perdita di valore scientifico, dunque, ma anche economico.
È tempo quindi di ristabilire e riformulare le priorità e le strategie di intervento, di adottare una pianificazione strategica nazionale, con criteri, metodologie e standard condivisi e una programmazione a breve e a lungo termine, soprattutto in questo particolare momento di riorganizzazione dell’intero sistema museale. La recente riforma Franceschini può costituire un’opportunità di riflessione per i musei per operare delle modifiche profonde nella scelta valoriale e/o nella (ri)composizione dei propri obiettivi strategici prioritari.
Ringraziamenti
Un doveroso e sentito ringraziamento va a tutti coloro che hanno contribuito all’impostazione e realizzazione del progetto di ricerca: Prof. Carlo Peretto (Università degli Studi di Ferrara), Prof. Roberto Lleras Pérez (Universidad Externado de Colombia, Bogotá), Dott.ssa Elizabeth Jane Shepherd (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione), Dott.sse Jeannette Papadopoulos e Claudia Scardazza (Direzione Generale per le Antichità – MiBACT), Dott. Luigi Malnati(Soprintendenza Archeologia dell’Emilia Romagna), Prof.ssa Carmela Vaccaro (Università degli Studi di Ferrara), Dott.ssa Anna Maria Visser (Università degli Studi di Ferrara), Dott.ssa Anna Maria Montaldo (Associazione Nazionale Musei Locali e Istituzionali), Dott. Valentino Nizzo (Direzione Generale Musei – MiBACT), Dott. Mario Cesarano (Soprintendenza Archeologia della Campania), Dott.ssa Caterina Cornelio (Soprintendenza Archeologia Emilia-Romagna), Dott.ssa Loredana La Vecchia (Università degli Studi di Ferrara). Un ringraziamento va infine a coloro che hanno partecipato all’indagine.