SOCIETÀ DEI VIVI, COMUNITÀ DEI MORTI: TRENT’ANNI DOPO
Alessandro Guidi, Università degli Studi Roma Tre
Abstract
Nel 1983, sui Dialoghi di Archeologia, in un numero monografico sui rapporti tra archeologia e antropologia, veniva pubblicato un importante contributo di Bruno D’Agostino dall’intrigante titolo “Società dei vivi, comunità dei morti: un rapporto difficile”.
Lo studioso, sulla scorta delle sue esperienze di ricerca assieme a Jean-Pierre Vernant e trovando conforto nelle teorie esposte proprio in quegli anni per la prima volta da Ian Hodder, asseriva con convinzione come fosse impossibile considerare le necropoli specchio fedele della struttura sociale. La necropoli, in quest’ottica, poteva essere immaginate solo come una complicata metafora di quelle strutture, i corredi come peculiari narrazioni da interpretare secondo specifici codici, in alcuni casi tendenti a mascherare o a nascondere l’identità in vita del defunto.
Una posizione simile, alcuni anni prima, era stata sostenuta in un celebre articolo (peraltro mai citato in alcun testo post-processuale!) sulle sepolture “povere” del VI e V secolo a.C. nel Lazio di Giovanni Colonna, da interpretare come peculiare conseguenza delle leggi suntuarie.
È inoltre interessante notare come l’origine di una simile “linea” di pensiero possa essere rintracciata addirittura in un libro del 1944 (Progress and Archaeology)del più importante studioso di preistoria del Novecento, Vere Gordon Childe.
Anche la teoria processuale della social persona, del resto, ha un suo antecedente in un articolo del 1951 di Karl-Heinz Otto (uno studioso della ex DDR) sulle possibilità di ricostruire i ruoli ricoperti in vita dai defunti sepolti nelle ricche tombe della cultura dell’antica età del bronzo di Aunjetitz, un testo perfettamente allineato alle teorie di Engels, a confermare le illuminanti pagine di Colin Renfrew sulle profonde analogie tra New Archaeology e marxismo.
Scendendo dai cieli della teoria ai concreti dati archeologici, nella protostoria dell’Italia centrale tirrenica è possibile individuare periodi in cui la struttura sociale appare profondamente mascherata, come la fase antica della prima età del ferro e altri in cui le élites decidono di autorappresentarsi come tali, come la fase recente dello stesso periodo.