Tempi opportuni: arti e scene museali in Kounellis
Ettore Janulardo
Università degli Studi di Bologna
«Io sono capace di andare in un museo e fare tutto, senza spedire [...] sono talmente coraggioso da andare in un museo e fare una mostra», dichiara Kounellis in una conversazione con Philippe Daverio per “Passepartout”.
Il quadro come visione concentrata è uno degli snodi fondamentali dell’opera e della riflessione di Kounellis: ma lontano da ogni mimesi di matrice naturalistica, egli ha bisogno di creare l’immagine in favore di una costruzione dell’opera che si fa flusso intellettuale. Mentre la concezione del quadro come campo di forze costituito da rapporti equivalenti a quelli esistenti nella realtà è già nelle migliori realizzazioni degli artisti amati da Kounellis – tra altri, Caravaggio e Piranesi, Munch e Ensor, Picasso e Boccioni, Pollock –, il suo tocco specifico è nel segno di una messa in scena immaginata e pensata, etimologicamente finta, come uno spazio ove partecipare per campionature alla drammatizzazione dell’interiorità artistica: il museo può essere il luogo dell’opportunità creativa, dell’irruzione poetico-dialettica.
Se l’artista opera all’insegna di un logos che, anche con la mediazione della luminosità bizantina, si fa specchio di ricongiunzione tra Oriente e Occidente, tra grecità e Illuminismo, ripercorriamo ora eventi e letture di confronti con la storia dell’arte e gli spazi espositivo-museali per scorger tracce del futuro.
L’opera come dislocazione museale. Nel cuore dell’Europa, una tragedia civile su un muro d’oro (cfr. per le citazioni e le note E. Janulardo, Kounellis. L’immagine e l’ideologia, Ginevra Bentivoglio Editoria, Roma 2015).
Se è possibile proporre la lettura di alcuni disegni di Kounellis alla luce di un rapporto con gli artisti della Secessione viennese e con le forme del proto-espressionismo, il momento in cui egli è più vicino alla grande arte di Klimt è in un’opera del 1975. Con altri mezzi, Kounellis giunge a riproporre la magia astratta e suadente dell’artista austriaco attraverso un’opera-presentazione che si dà come un’apparizione.
Sorta di dislocazione-spostamento della prospettiva museale del Belvedere Superiore di Vienna, dall’ampia raccolta klimtiana, il lavoro – presentato alla Galleria Lucio Amelio di Napoli – consta di un muro ricoperto d’oro in fogli davanti al quale, spostato a destra, è un attaccapanni con cappotto e cappello; sulla parete sinistra è una lampada a petrolio accesa. Opera misteriosa e concentrata, quasi cartolina dall’Oriente europeo e dall’Austria fin-de-siècle, omaggio alla tradizione della continuità culturale che, come indica la lampada a petrolio, è riuscita a mantenersi integra sino ai primi del Novecento, quando le tessere del mosaico erano ancora unite e con pazienza artigianale si potevano giustapporre una ad una queste lamine d’oro. Opera rarefatta e raffinata, schermo dorato per una vita che crede ancora in una dimensione oltre quella del quotidiano; iconostasi delle chiese bizantine, che separa lo spazio della galleria destinato ai visitatori – nella luce del neon – dal luogo sacro in cui si svolge l’officium.
Il muro d’oro invita a ripercorrere le trame culturali che hanno attraversato nei secoli l’Oriente europeo, la tradizione che da Bisanzio ha permeato di sé la Grecia, i Balcani, la Russia, sino a trovare la sua ultima incarnazione nel mito sovranazionale dell’impero asburgico. Predomina allora la decorazione astraente, l’oro del fondo dei mosaici, la riduzione ai due piani dell’orizzontale/verticale, come era in Klimt. Opera klimtiana («Serve la coscienza, il pathos e la visione di Klimt», afferma Kounellis) dove la figura si annulla lasciando di sé solo tracce: alcuni bagliori riflessi dall’oro – quasi una presenza diffusa ma estenuata – e l’elegante insieme, in contrasto cromatico sulla superficie dorata, costituito dal vecchio attaccapanni viennese e dal cappotto e cappello; forme insieme rigide e sottili, ma anche morbide nelle pieghe della stoffa e nelle curve levigate del legno su cui poggia il feltro. E l’opera si presenta come una visione: «Io amo gli artisti visionari del Medioevo», dove la tragedia civile (di una civiltà) include quella dell’artista privato della sua funzione.
Il muro d’oro è un grande muro, è la scena di una storia avvenuta, colta ormai alla sua fine, quando l’eroe antico si è reso conto di aver ricoperto la sua funzione e si è defilato in silenzio, abbandonando il suo abito in quello che fu un luogo sacro.
E di tassello in tassello leggiamo questo medievale e dorato libro d’ore scoprendo che qualcuno e qualcosa, un tempo, sono esistiti.
Il museo come spazio della creazione e del confronto. La mostra al “Today Art Museum” di Pechino.
Leggiamo nella call di quest’edizione che «il Museo si colloca come sistema auto-poietico ai margini del caos, ossia come un sistema socchiuso, capace di mantenere la propria integrità organizzativa, che si confronta con il contesto e il disordine da esso generato, assimilando i cambiamenti e facendoli propri». E la mostra di Kounellis del 2011 a Pechino rientra pienamente in tale dinamica, con una focalizzazione sulle metamorfosi della storia e della creazione artistico-museale.
Prima personale di un artista non cinese al “Today Art Museum” – aperta tra il 19 novembre e il 13 dicembre 2011 e curata da Huang Du, la mostra si è svolta nell’ambito dell’iniziativa “Translating China”, concepita e realizzata dalla Galleria Marino di Roma – il progetto espositivo si nutre di costanti kounellisiane e di elementi innovativi. Tra le costanti, la teatralizzazione dell’opera che si presenta come spettacolo in grado di inglobare lo “spettatore”, il cui ruolo viene messo in discussione agendo su di lui con procedimenti plurisensoriali: dalla suggestione musicale all’iconografia del quadro come grande schermo-sfondo; dalla ritualità dei movimenti alla ricomposizione concettuale, in tutto rispettando l’assunzione della galleria – e dello spazio museale – come “cavità drammatica” (cfr. E. Janulardo, Kounellis. L’immagine e l’ideologia, cit.).
La morfologia modulare tipica dell’artista – con pannelli in ferro “umanisticamente” equivalenti alla misura di un letto a due piazze – si consacrerà a un dialogo interno alla storia dell’arte nella mostra del 2014 “Mafai-Kounellis – La libertà del pittore” all’Aranciera di Villa Borghese: i moduli supportano e ricostruiscono il percorso creativo di Mario Mafai.
Drammaticamente evidente è stato l’esito del lungo soggiorno in Cina di Kounellis per realizzare la mostra del 2011 a Pechino. Sorta di esposizione di una temporalità esplosa, letteralmente frantumata, la realizzazione mette in scena la tipica dicotomia rigido/fragile in chiave di rottura e riproposizione della storia. Nella mostra i moduli in ferro – qui non addossati alle pareti ma autoportanti – ospitano riquadri con ceramiche ridotte in frantumi dalle Guardie rosse, poi vendute sui mercati cinesi come reliquie, quindi acquistate e “ricomposte” da Kounellis – nella logica dello spazio museale come possibile sutura di una storia in divenire – a indicare un passato che si trasforma tra le azioni e gli sguardi della contemporaneità.
Kounellis individua nel contesto contemporaneo cinese fascino e criticità: «io, senza una coscienza, non avrei comprato tutte queste cose per utilizzarle […] vedendo questo paese bellissimo, pieno di tensione, vedo però […] un pericolo: quello di mettere in crisi la tradizione» (J. Kounellis, dichiarazione in Philippe Daverio intervista Jannis Kounellis, Passepartout, Rai3).
Lontana rivisitazione del “teatro povero” di Jerzy Grotowsky, la formalizzazione di Kounellis appone una grafia espressiva sulle ceramiche spezzate, come ricorda nella medesima comversazione: «[…] io ho preso queste cose e ci faccio una scrittura ermetica, sui frammenti che ho comprato. E li ricompongo con quella scrittura, faccio una grafia. E, come sappiamo, la tradizione ha un peso determinante […]».
Immagini da inquadrare per il tempo di cambiare.
Come si osservava nell’Introduzione, sul quadro e sull’inquadramento dell’immagine si costruisce la più profonda unità dell’operare di Kounellis (cfr. E. Janulardo, Kounellis. L’immagine e l’ideologia, op. cit., cui si rinvia per le citazioni e le note).
Così i quadri, in senso lato, e le immagini di Kounellis corrispondono a un’immagine mentale – non concettuale – profondamente impregnata di senso della storia: le sue immagini sono non solo rappresentazione di una riflessione storica ma riflessione e intervento storico esse stesse. Nella sua esigenza di “staccare” un segno tra gli infiniti possibili, Kounellis sceglie un segno-contributo (alla conoscenza), una testimonianza-protesta, un segno-scelta, conducendoci vicino alla coscienza del filosofo tedesco, per il quale Renato Solmi parlava di «unità messianica della storia, e del presente come sua punta avanzata». Così come sembra pronunciata dall’artista questa frase benjaminiana – dalle Tesi di filosofia della storia – che è anche un prezioso profondo sigillo alla sua ricerca: «In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla».
L’intervento di Kounellis è in favore della tradizione, cioè di una consegna da parte della storia che è soprattutto scelta e conquista di un passato da ri-agire e da ri-di-segnare. «E fonda così un concetto del presente come del tempo-ora, in cui sono sparse schegge di quello messianico […] È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La thorà e la preghiera li istruiscono invece nella memoria. Ciò li liberava dal fascino del futuro […] Ma non per questo il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché ogni secondo, in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia» (W. Benjamin, XVIII Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. Einaudi, Torino).