Chrónos, Aión, Kairós e i tempi dello scavo ai tempi dell'archeologia partecipata

Enrico Zanini
Università di Siena

 

Che i tempi di uno scavo archeologico siano molti è una osservazione banale: c'è un tempo “operativo” da ottimizzare in termini di rapporto costo/benefici (e su questo c'è una letteratura specialistica relativamente vasta), ci sono i tanti tempi interni della stratificazione archeologica (il primo vagito del matrix di Harris sta in un articolo intitolato “A question of time”) e ci sono i tempi della contemporaneità, con cui i tempi di uno scavo devono fare necessariamente i conti.

Ma nei nostri giorni il tempo è diventato una variabile complessa: complessa da definire e percepire (il tentativo meglio riuscito che io conosca è quello della gigantesca installazione di Richard Serra “Matter of Time”, per il Museo Guggenheim di Bilbao), che oscilla tra i due poli dell'infinitamente veloce delle supertecnologie e la riscoperta progressiva del piacere e del significato della lentezza.

Da questo punto di vista, forse, uno scavo archeologico che voglia essere un'avventura intellettuale collettiva di/per/con una comunità non può non porsi il problema di ridefinire i suoi tempi. Un quarantennio di logica harrisiana - nelle sue diverse declinazioni operative, dallo scavo di emergenza a quello di ricerca - ci ha portato a considerare il tempo di scavo come una dimensione da ottimizzare il più possibile, in nome della riduzione dei costi operativi e della mitigazione dell'impatto negativo che uno scavo, soprattutto in ambiente urbano, ha sui tempi della società che gli sta intorno.

Io credo che la crisi attuale dell'archeologia da campo sia anche legata a questa concezione “cronometrica” del tempo, che punta a contrarre il tempo di scavo, sfruttando al massimo le nuove tecnologie speditive (soprattutto nella documentazione) e di fatto rimandando ad altro tempo e ad altro luogo (spesso anche ad altre persone) le fasi più impegnative dell'interpretazione. In termini brutalmente economici non penso che si tratti di una scelta vincente: ragionando in termini di Total Cost of Ownership, il risparmio di tempo sullo scavo non si traduce affatto in un risparmio complessivo di tempo/risorse nell'intera operazione di conoscenza, in essa includendo tutte le fasi dell'interpretazione e della comunicazione, senza le quali la conoscenza archeologica prodotta durante lo scavo semplicemente non esiste.

Esperienze recenti di archeologia partecipata all'interno di una comunità mi inducono a pensare che la ricerca di una delle sostenibilità economiche possibili per l'archeologia contemporanea stia per l'appunto in un ripensamento dei suoi tempi e del valore economico da assegnare a quegli stessi tempi e, di riflesso, alle persone che questi tempi gestiscono. Ovvero gli archeologi.

I tempi di una ricerca possono quindi essere non solo Chrónos, ma anche – e forse soprattutto – Kairós, il tempo “speciale”, che è quello in cui si costruisce l'interpretazione e si progetta realizza la comunicazione che da quella dipende. E può essere anche Aión, il tempo ciclico, ripetitivo, in cui una ricerca archeologica entra nei ritmi vitali di una comunità, ne accompagna il crescere delle giovani generazioni (costruendo un futuro di fruitori consapevoli di un patrimonio culturale diffuso) e lo scambio intergenerazionale (costruendo un presente di identità locali che sono il tessuto connettivo della dimensione europea verso cui ci proietta Horizon 2020).

Forse nel ripensare il tempo / i tempi dello scavo sta una delle possibili vie per rendere sostenibile nel tempo quello che da tempo non è più un “piacevole passatempo per ricchi per

giulia osti41