Visioni di Europa nella costruzione identitaria? le antichità cipriote e la strategia culturale della politica estera italiana
Silvana Di Paolo
Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico
Gli oggetti possono narrarci delle storie. Essi sono animati di un vissuto e di significati che ne accomunano il destino a quello dei loro utilizzatori: possono essere uno straordinario materiale narrativo che ci parla della vastità del tempo, del sapere e della memoria. Negli ultimi decenni, approcci interpretativi che hanno focalizzato l’attenzione sulle ‘biografie’ degli oggetti sono diventati molto popolari nell’ambito degli studi culturali. Questo riflette certamente un rinnovato interesse per la cultura materiale, così come per gli aspetti legati alla materialità. Nello stesso tempo, lo sviluppo del concetto di ‘biografia’ degli oggetti e del ruolo che essi svolgono nella quotidianità delle esistenze umane e nelle relazioni sociali, ha portato a esaltarne la funzione di ‘agenti’ nelle dinamiche socio-culturali incoraggiando il dialogo tra ambiti, sguardi e pratiche differenti.
Parlare di oggetti, in questo caso di antichità, aiuta la comprensione del mondo sociale. Ogni oggetto ha un suo singolare percorso di vita, utile a rivelare qualcosa della società in cui è inserito. A lungo la sociologia, da sempre concepita come scienza dei soggetti, non ha riconosciuto un ruolo attivo agli oggetti, trattati come prodotti dell'attività umana o strumenti dell'attività umana. Come è noto, l'atteggiamento verso il ruolo sociale degli oggetti è mutato soprattutto per le riflessioni di alcuni antropologi, sociologi (tra cui Igor Kopytoff) e studiosi della società dei consumi formatisi sui libri di Jean Baudrillard. Secondo questi studiosi, nel funzionamento dei fenomeni sociali, gli oggetti agiscono come soggetti capaci di contribuire alla produzione della realtà. Sono, cioè, in grado di modificare con la loro presenza il sistema delle interazioni umane. Senza arrivare a posizioni come quella di Paolo Volontè, secondo cui ‘gli oggetti agiscono con una propria autonoma personalità’, la ricerca negli ultimi anni ha evidenziato, nei campi più svariati delle scienze umane, come gli oggetti si introducano nelle relazioni umane prescrivendo anche modelli di comportamento: la personalità degli oggetti interagisce con la personalità degli umani.
Alcune di queste tendenze hanno sottolineato la costruzione di una identità culturale. I diversi percorsi di interazione tra individui e oggetti costituiscono forme di conoscenza ma anche di costruzione di una identità come nel caso-studio che intendo prendere in esame. Sebbene il percorso formativo sia di non agevole ricostruzione, il tema trattato può essere collocato a grandi linee in un clima generale di costruzione di una memoria collettiva e nazionale: in questo quadro gli oggetti archeologici assumono un ruolo fondamentale di per sé, indipendentemente dalla loro natura e provenienza.
E’ ben noto come Cipro sia stata per molti secoli sotto il dominio ottomano terminato nel 1878 quando l’isola passò sotto l’amministrazione britannica. Ma dalla fine del ‘700, potenze europee come la Francia e l’Inghilterra puntarono, per concorrenti ragioni economiche e strategiche, alle regioni del Mediterraneo orientale, compresa l’isola suddetta.
Le relazioni politiche e diplomatiche delle potenze europee con il regno ottomano e la grande ricchezza del patrimonio archeologico locale produssero quella che può essere chiamata una vera e propria ‘spoliazione’ culturale dell’isola, confrontabile con un analogo fenomeno (ma forse meno noto) che riguardò il periodo di occupazione della Serenissima, impegnata, attraverso un uso oculato dei resti antichi, a propagare il mito dell’impero romano e soprattutto a costruire una nuova retorica imperiale.
Dunque, in modo analogo, qualche secolo dopo, le potenze europee chiamate a competere anche sul piano culturale, organizzano, attraverso i loro rappresentanti diplomatici, una sorta di caccia ai tesori locali che diventa, nello stesso tempo, vera e propria appropriazione materiale e simbolica: gli scavi condotti nell’ambito dell’attività dei consolati francese, inglese e americano (da personaggi come Louis Dumesnil de Maricourt, Tiburce Colonna-Ceccaldi, Robert Hamilton Lang, Luigi Palma di Cesnola ecc.) producono raccolte impressionanti di antichità vendute, in concorrenza tra loro, ai musei europei favorendo, nei paesi occidentali, un processo di democratizzazione della cultura e concretizzando quella ‘missione civilizzatrice’ di cui l’Europa si era sentita pienamente investita. In questo processo e sul modello del primato occidentale si colgono però delle disomogeneità: intendo cioè porre l’accento sul fatto che questo modello è formato da una costellazione di varianti. Il problema dell’identità monolitica e indifferenziata dell’Occidente dominante va rimodulato quando si parla, ad esempio, della presenza italiana a Cipro, con particolare riferimento all’attività diplomatica svolta sull’isola dal Console Riccardo Colucci tra il 1868 e il 1872.
Innanzitutto si deve riformulare il concetto di ‘identità’ dato che non si può parlare di Italiani tout court in questo caso, ma di ‘levantini’. Riccardo Colucci, infatti, nasce nel 1814 ad Alessandria d’Egitto e muore nel 1873 a Ragusa di Dalmazia (oggi Dubrovnik). Proveniente da una famiglia di origine pugliese la cui storia si ricollega alle vicende che seguirono le rivoluzioni del 1799 contro le campagne napoleoniche in Italia e allo scontro, dunque, tra repubblicani e borbonici, il Colucci è uno dei tanti che emigrano prima a Costantinopoli e poi in Egitto (ad Alessandria in particolare), costituendo una comunità di italiani che costituisce l’espressione elitaria di una società composita formata da professionisti (medici, ingegneri, medici), tecnici, militari che riveste un ruolo di primo piano nel processo di modernizzazione del paese. Formata da ondate migratorie successive, queste comunità italofone, sono interessate sia a questioni di meticciato che di nazionalità e appaiono pienamente integrate nelle società nelle quali si inseriscono, a differenza di altri gruppi più chiusi e molto più legati alla loro patria d’origine (i francesi ad esempio).
La ‘levantinità’ riveste una speciale funzione all’interno delle comunità straniere che vivono ed operano in seno all’impero ottomano. Intanto, essa costituisce l’espressione determinante ed esclusiva dell’identità collettiva del gruppo, mettendo su un piano marginale il rapporto tra i presunti ‘Altri’ (Turchi) e i presunti ‘identici’ (gli altri Italiani), le implicazioni psicologiche in termini di complessi di inferiorità/superiorità, le diverse contraddizioni identitarie (il culto dell’italianità ad esempio).
Questa forma di ‘levantinità’ è stata in grado di produrre anche incivilimento e acculturazione. Oltre a svilupparsi per accumulazione di contenuti, la levantinità si è perpetuata attraverso il tempo (è perciò transgenerazionale) e ha permeato di sé le ondate migratorie italiane. Che si chiami cultura o civiltà levantina, la sua trasmissione è avvenuta nella forma della socializzazione dentro un quadro istituzionale e politico ma anche fuori, essenzialmente tramite la narrazione.
In questo quadro, l’ interesse per l’archeologia appare definito attraverso la relazione che si stabilisce tra soggetti e oggetti, e attraverso la funzione di ‘agenti’ degli oggetti archeologici nelle dinamiche politiche e socio-culturali. In particolare, la formazione delle raccolte di antichità a Cipro risponde a criteri che devono ancora essere in parte individuati e descritti. La possibilità, via via più concreta, di ricostituire idealmente la raccolta di antichità cipriote messa insieme da Riccardo Colucci durante il suo periodo di permanenza sull’isola di Cipro e originariamente suddivisa tra diversi lottiofferti in dono a privati e istituzioni pubbliche (solo il più vasto si trova attualmente presso il Museo Archeologico di Firenze) pone spunti di riflessione sul modo in cui le antichità sono intervenute nei processi decisionali e nelle relazioni diplomatiche e personali. E’ apparso evidente anche sulla base della documentazione d’archivio del Ministero degli Affari Esteri e degli Archivi Centrali dello Stato, che questi oggetti donati al Museo di Firenze e a quello di Madrid hanno contribuito alla costruzione di un’identità italiana ma anche ‘mediterranea’, inserendosi, da una parte, nel processo di creazione di stato-nazione e delle fondamenta degli elementi della sua identificazione come il patrimonio culturale ‘nazionale’, dall’altro nella dinamica delle relazioni interindividuali. Dunque, se la composizione dei lotti di materiali inviati ai musei risponde, essenzialmente a finalità didattiche e educative, non è così in tutti gli altri casi. L’esistenza di legami personali e sociali tra i membri della comunità levantina ha portato anche alla condivisione di significati riconosciuti alle cose che hanno popolato la loro vita, riconoscendoli come un ‘costrutto culturale’. I documenti dall’archivio privato del Colucci, infatti, danno conto di questi rapporti sociali attraverso la donazione di lotti di antichità cipriote di natura e consistenza non sempre facilmente ricostruibili. I legami con Giuseppe Haimann, che fu capo divisione presso il Ministero della Giustizia egiziano (1874-1880) ma anche pittore ed esploratore (nel 1881 compì un viaggio-ricognizione da Bengasi a Derna stendendo una relazione che rappresenta una delle migliori descrizioni della Cirenaica prima dell’occupazione italiana) sono testimoniati da scambi di epistole nelle quali gli oggetti scambiati (vasi antichi per quadri, opera dello stesso Haimann) diventano il sistema di segni attraverso i quali i due presentano sé stessi, giudicano e sono giudicati. Gli oggetti diventano veicolo di simbolismi culturali, forme più o meno tangibili di espressioni del sé. Cipro come ‘terra remota ed antichissima di reminiscenze sublimi’ (così il Colucci scrive a Giacomo di Castelnuovo, medico di origine toscana di stanza prima alla corte di Sadiq Bey in Tunisia e poi in Egitto) è anche luogo di oggetti, materia capace di imprigionare le emozioni e il vissuto. Insieme, oggetti e perosne, formano una sorta di unità che si lascia smembrare a fatica. Ciascuno con una propria identità trasferisce nell’altro ciò che gli è pertinente: eredità storica che si fa potere memoriale; identità sociale prolungata e ‘resa eterna’ attraverso gli oggetti.